Dimmi SOLO quello che voglio sentire.
Gli uomini non amano le parole vere, ma apprezzano le parole compiacenti! E la comunicazione mediatica lo ha ben compreso. Non importa se siano vere o false, se si realizzeranno e se saranno presto dimenticate. Ma ogni tanto la realtà ci delude, talvolta è dura. Magari facciamo finta di non vederla fin quando è possibile, ma arriva il momento in cui ci sbattiamo la testa. E ne sentiamo così tutta la durezza.
Anche i discepoli di Gesù, a un certo punto, sbattono il cuore contro la durezza della parola che hanno ascoltato. La parola di Gesù è dura, come una medicina amara, ma necessaria per guarire. Ci sono infatti parole che danno vita, sono le parole che vengono dallo spirito di Dio. Ma ci sono anche parole che rispondono solo al nostro bisogno carnale di essere saziati. Lo spirito è la vita che è in noi, la nostra parte più profonda, la nostra identità più autentica, il luogo della relazione con Dio. La carne è la nostra dimensione indigente, bisognosa, effimera.
Ci sono perciò due modi diversi di vivere: quello in cui cerchiamo di ascoltare le parole che ci fanno vivere, che ci mettono in discussione, che ci fanno crescere, che magari ci feriscono, ma ci fanno guarire; e c’è un altro modo di vivere, quello in cui andiamo alla ricerca di parole di compiacimento, delle parole che nutrono la nostra immagine, quelle che ci confermano, ma ci illudono. Le parole carnali non saziano e ci lasciano dentro un vuoto che genera insoddisfazione.
Le parole dello spirito, nella loro durezza, ci fanno sentire vivi e profondamente consolati.
Come Pietro intuisce, le parole dello spirito sono quelle di Gesù, ma anche quelle parole che noi possiamo dire ad altri quando ci lasciamo abitare dallo spirito di Gesù.
Proprio come in una relazione d’amore, all’inizio il cuore è caldo e le parole appaiono tutte indifferentemente dolci, ma nel tempo, ogni relazione fa emergere la durezza delle incomprensioni, la fatica di abbandonare qualcosa di sé, il peso delle esigenze dell’altro.
E allora ci viene voglia di tornare indietro.
Proprio come in un viaggio, quando decidiamo di tornare al punto di partenza perché la strada ci spaventa. I discepoli di Gesù vogliono tornare indietro, preferiscono continuare ad accontentarsi di parole carnali, parole magari più superficiali, parole false, parole ingannevoli, ma sufficientemente saporite per fingere di stare bene.
Tornare indietro, nella relazione con Gesù, vuol dire accontentarsi. Significa cercare di essere ipocritamente corretti, ma senza arrivare mai ad amare. Si arriva ad amare infatti solo quando si ha il coraggio di non indietreggiare davanti alla durezza delle esigenze della relazione.
Ad un certo punto la relazione con Gesù, come ogni altra relazione, diventa dura, faticosa, impegnativa, ma è lì che avviene la scelta di diventare discepolo. E non conta neppure il tempo che abbiamo speso dietro a Gesù, perché i discepoli di Emmaus, per esempio, erano arrivati fino a Gerusalemme, eppure decideranno ugualmente di tornare indietro. Così, in una relazione, si può aver camminato insieme per lungo tempo e scoprire poi la fatica di camminare con l’altro.
La vita dunque è una continua scelta tra il desiderio di seguire le parole dello spirito e la tentazione di nutrirsi solo di parole carnali. Come è accaduto per le tribù d’Israele a Sichem, c’è sempre un momento in cui ci viene chiesto chi vogliamo servire: gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume […] o il Signore? (Gs 24,15).
Chiediamoci allora: mi confronto con parole che mi provocano o ricerco solo messaggi che mi confermano? Ho mai sperimentato la durezza della parola di Gesù?
XXI Domenica T.O.