Mettere etichette
Avete mai fatto caso alle simpatie o antipatie immediate che nascono in noi quando incontriamo una persona per la prima volta? In genere ci facciamo un’idea di qualcuno a prima vista, in base alle nostre esperienze, ai ricordi, alle paure, diciamo pure che tendiamo per lo più a mettere etichette sulle persone. Classifichiamo le persone, le incaselliamo, con l’illusione di poterle gestire meglio. Questo atteggiamento diventa molte volte una forma di violenza e di manipolazione perché non lasciamo all’altro la libertà di crescere e di esprimersi, ma lo costringiamo a stare dentro i nostri schemi.
Questa dinamica è presente molte volte anche negli ambienti più familiari, ad esempio all’interno di una coppia, dove ogni sorpresa o novità è vista come strana, insolita, degna di sospetto. Accade persino nel rapporto tra genitori e figli, per non parlare delle nostre comunità… si tarpano le ali a chi sta cercando di crescere.
Questa tendenza a mettere etichette si dispiega anche con Dio: pensiamo di conoscerlo, non gli permettiamo più di sorprenderci, lo diamo per scontato. Può capitare a chi vive una fede stanca, ripetitiva, che ha perso il gusto di cercare, a chi si è fatto un’immagine stereotipata e folcloristica di Dio. Al contrario chi si avvicina a Dio con onestà e desiderio si accorge di non conoscerlo mai abbastanza: Dio sorprende e si sottrae a ogni etichetta per quanto brillante possa essere.
La crisi dell’incomprensione
Il Vangelo di Marco, mette proprio in evidenza questa delusione nella conoscenza di Gesù, proprio in Galilea, nella sua terra, nel luogo più familiare, Gesù sperimenta l’incomprensione. La gente pensa di conoscerlo, lo hanno visto crescere, e per questo sono refrattari a lasciarsi sorprendere e guarire da lui.
Non possiamo non vedere in questa dinamica qualcosa che ci provoca profondamente: noi che lo frequentiamo, che viviamo con lui, che gli siamo più vicini, molte volte siamo quelli che fanno più fatica a lasciarlo operare in modo nuovo. Forse ci aspettiamo di vedere l’azione di Dio sempre secondo i nostri parametri, le nostre aspettative.
Questo brano è un’ottima provocazione: facciamo fatica a renderci disponibili ad ascoltare una parola profetica, una parola nuova, a volte scomoda. Vorremmo piuttosto essere confermati nelle nostre idee e nelle nostre sicurezze. Ma quando la fede diventa accomodamento e tranquillità vuol dire che ha smesso di essere autentica.
Cosa ci aspettiamo da Dio? Dio entra nella normalità della condizione umana per scuoterla: entra nella sinagoga, legge la parola, si mette in relazione, si prende cura delle malattie dell’uomo. Eppure questo non ci basta. Quale immagine di Dio stanno cercando i concittadini di Gesù? Cosa si aspettano da Dio?
Nel Vangelo appare evidente che la gente è talmente incredula da impedirgli di agire. È la nostra mancanza di fede che impedisce a Dio di agire. Gesù si rende conto che il suo messaggio non è passato, per questo si ferma, si interroga, prova a capire che cosa non ha funzionato. Cercherà di capire cosa pensa la gente di lui e cosa si aspetta.
Forse anche noi dovremmo confrontarci con questo modo di reagire di Gesù: spesso infatti tendiamo a negare il fallimento, non ce ne assumiamo la responsabilità, non ci poniamo delle domande per capire come modificare la nostra comunicazione. A dire il vero, accade in ogni tipo di relazione, dove capita di non sentirsi compresi, in famiglia, con i figli, nella coppia, nel lavoro, con gli amici… Questo fallimento non va occultato, ma va guardato e usato per trasformare il nostro modo di porci nei confronti di coloro che ci stanno a cuore.
Ogni volta che non siamo disposti a metterci in discussione, probabilmente stiamo perdendo un’occasione di crescita e di cambiamento.
Chiediamoci allora: Sono disposto a lasciarmi sorprendere dalle persone o tendo a mettere etichette irremovibili? Mi voglio lasciare sorprendere da Dio?
XIVDomenica